La crisi in Mali, tra nuove proteste popolari, pandemia e gruppi armati
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Dissipare una crisi politica aggravatasi tra marzo e aprile scorsi in occasione delle elezioni legislative. È l’obiettivo della missione in Mali della Comunità economica degli Stati
dell'Africa occidentale (Ecowas), in corso da ieri a Bamako. Proprio in queste ore l’opposizione al presidente Ibrahim Boubacar Keïta ha chiamato in piazza la popolazione per una nuova
manifestazione di protesta dopo quella del 5 giugno scorso.
L’alleanza che chiede le dimissioni del capo dello Stato, guidata dall'imam Mahmoud Dicko, ha infatti rifiutato la proposta di un confronto avanzata da Keita di fronte ai dimostranti che lo
accusano di non essere in grado di far fronte alla violenza etnica, a quella dei gruppi armati e ai sempre più frequenti attacchi nel nord da parte dei miliziani jihadisti legati ad al-Qaeda
e all'Isis, in un Paese afflitto da corruzione e stagnazione economica.
In un momento di emergenza da Covid-19, che in Mali ha fatto registrare oltre 1.800 casi con più di 100 morti, a puntare l’attenzione sulla “profonda emergenza umanitaria” è Marco Di Liddo,
analista del Centro Studi Internazionali (CeSi):
R. - La situazione odierna in Mali vede oltre 4 milioni di persone in stato di profonda emergenza umanitaria: si tratta di persone non hanno accesso ai servizi di base, che soffrono una
situazione alimentare al limite e che devono combattere con le avversità di una guerra che dura ormai dal 2012 e di un clima sempre più feroce nei confronti del Paese, che non permette lo
sviluppo delle attività economiche in maniera appropriata. Su questa base emergenziale, a capitalizzare il malcontento sono le milizie etniche e i movimenti jihadisti, che altro non fanno
che sfruttare la rabbia popolare e trasformarla in violenza. La situazione di sicurezza è gravissima, perché il Paese non si sta dimostrando in grado di fermare la violenza dei movimenti
jihadisti né tantomeno di costruire un dialogo pacifico ed efficace con tutte quelle componenti etniche, a cominciare dai tuareg e dai fulani, che vorrebbero una riforma del sistema.
I gruppi estremisti attivi nel nord sono in qualche modo legati alle correnti jihadiste dell’Africa sub sahariana?
R. - Sì, il Sahel è da alcuni anni a questa parte il laboratorio jihadista per eccellenza del continente africano, un luogo dove si sono fuse le istanze ideologiche originarie del jihadismo
che provenivano dal nord Africa con le criticità e le vulnerabilità etniche dell'Africa sub sahariana. Quindi si è creato un mix che non ha precedenti nel continente e che riesce a
condizionare sia le regioni settentrionali sia quelle meridionali.
Nei giorni scorsi forze francesi e locali hanno ucciso l’emiro di al-Qaeda nel Maghreb islamico, Abdelmalek Droukdel. Che contingenti sono in campo nel nord del Mali?
R. - Gli attori militari più attivi possono essere racchiusi in tre gruppi. La missione Minusma delle Nazioni Unite, che ha il compito di effettuare attività di peacekeeping e di law
enforcement nella regione. C’è inoltre la pletora delle missioni europee che si occupano prevalentemente di addestramento delle forze locali. E poi abbiamo la cosiddetta task force del “G5
Sahel”: Mali, Burkina Faso, Niger, Mauritania e Ciad. A tutto ciò si aggiunge la Francia, che è l'attore più attivo con oltre 3.000 uomini.
R. - La pacificazione del Sahel è una partita fondamentale sotto vari aspetti. Il primo, per quanto riguarda per esempio gli interessi congiunti europei ed africani, è quello di fermare il
terrorismo e di fermare l’insorgenza etnica che rende difficile qualsiasi tipo di stabilizzazione della regione e promozione di programmi di miglioramento economico ed umanitario. In secondo
luogo c'è un interesse a fermare le dinamiche delle migrazioni illegali, che non è solo una questione politica per l’Europa ma è un problema securitario per i Paesi del Sahel, perché
aumenta il flusso di denaro a disposizione di reti criminali e terroristiche. Ed inoltre non dobbiamo dimenticare che i Paesi del Sahel hanno risorse minerarie, come terre rare, oro e in
alcuni casi anche giacimenti di idrocarburi.
In un momento di emergenza da coronavirus, perché ora in Mali queste manifestazioni così imponenti contro il presidente?
R. - Il presidente è accusato di non aver dato risposte adeguate ai problemi di cui sopra e anche di una gestione personalistica e individualistica della cosa pubblica. Purtroppo questo è un
male di cui diversi presidenti africani sono accusati. Naturalmente il coronavirus, con i suoi impatti economici, ha dato ulteriore rabbia alla popolazione, perché ha colpito l'economia, ha
impoverito soprattutto il settore agricolo: il 70% della manodopera maliana è impiegata nell'agricoltura. Con le misure di lockdown, i braccianti agricoli, i lavoratori del primo settore si
sono trovati privi di un reddito e quindi la rabbia popolare è diventata sempre più crescente.
Da chi è guidata l'alleanza dell'opposizione, che chiede le dimissioni del capo dello Stato?
R. - La figura che è emersa con maggior vigore è l'imam Mahmoud Dicko, che è un religioso molto famoso nel Paese: proviene da Timbuctù, nel nord, ed è stato a capo della più grande moschea
di Bamako, il principale luogo di culto del Mali. È un uomo di lunga esperienza politica: in passato ha sostenuto la candidatura di Keïta come presidente, salvo poi prenderne le distanze.
Oggi guida l’opposizione e soprattutto a livello internazionale è conosciuto come il principale ‘avvocato’ della linea di dialogo con i movimenti jihadisti: lui sostiene che per risolvere la
crisi in Mali bisogna istituire un tavolo per parlare con questi insorgenti, con questi movimenti radicali.
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